Professor Morcellini, che la televisione sia centrale – e in maniera abnorme – nel panorama della comunicazione italiana è cosa risaputa. I numeri del sistema editoriale italiano del 2014, che vedono l’ulteriore inabissamento dei quotidiani [solo 3.200.000 milioni di copie vendute al giorno], confermano e approfondiscono questo squilibrio. La televisione, dunque, tanto più “al tempo della crisi”, con il rarefarsi degli altri consumi mediali diventa sempre più essenziale nel determinare la sensibilità dei cittadini. Ancora più rilevante diviene dunque mettere al centro la riflessione sul ruolo del Servizio Pubblico radiotelevisivo, anche in vista dell’imminente riforma …
“Cominciamo col commentare questo aggettivo da lei usato, “abnorme”. Mi sembra opportuno partire da qui per spiegare come nel nostro Paese, soprattutto alle origini, lo sviluppo della televisione è stato singolare, molto più forte e più rapido che in altri paesi moderni. Ciò può sembrare strano a dirsi, poiché negli anni ’50 e ’60 gli altri paesi apparivano più moderni, e pertanto più propensi all’innovazione di prodotto che la televisione porta con sé. Allo stesso tempo, però, negli altri paesi v’era già una preparazione culturale di base ed una migliore scolarizzazione – come, per altro ha evidenziato De Mauro nel focus de L’Eurispes.it. Sistemi che beneficiavano di una discreta distribuzione dell’informazione e una forte funzione della scuola. In Italia queste variabili sono sempre state un po’ faticose, soprattutto in termini di qualità. L’abnormità dello sviluppo della televisione va quindi ulteriormente indagata, perché la sua unicità ci costringe a usare parole più dure rispetto ad altri Paesi. Se da noi l’avvento della televisione è stato il traino per molti cambiamenti, sotto un’altra ottica, guardando a ciò di cui la televisione non si è occupata (sviluppare contenuti di qualità, accrescere le proprie capacità di divulgazione, concedere al suo pubblico maggiori spazi di partecipazione e contribuire ad una crescita del suo sapere), la rende (o la indica quale) la vera responsabile di alcuni fenomeni di degrado presenti nella nostra vita pubblica. Su questo torneremo. La ragione per cui una riforma della Rai è essenziale è perché il Servizio Pubblico non ha saputo in nessun modo contrapporsi a quello che noi del settore chiamiamo “il populismo culturale italiano”. Questo è il primo punto che voglio fissare …”
Gli interlocutori che l’hanno preceduta nel nostro focus sono stati molto critici verso l’incapacità del Servizio Pubblico italiano di porre quanto meno un argine alla onnivora “logica dell’auditel”, la qual cosa ha portato il sistema televisivo privato ad imporre un’egemonia culturale anche su quello pubblico…
“Quello della cosiddetta “cultura dell’auditel” è un punto su cui tornerò, ma andiamo con ordine. Ho definito questo concetto della “stranezza” della televisione italiana rispetto al contesto europeo. Tenendo conto di ciò, oggi abbiamo le prove che all’interno del mercato dei consumi culturali la crisi della televisione è più forte degli altri mezzi. È bene ribadirlo. È vero che la stampa sta sempre peggio, ma non possiamo limitarci a confrontare la televisione solo con la stampa, bensì con una dieta multipiattaforma che coinvolge anche la radio, spettacoli da vivo e, soprattutto, la rete. Su questo fronte la televisione va meno bene della rete per ovvie questioni di sviluppo: una è nuova, l’altra è vecchia e condivide con la radio la crisi generale del preesistente sistema della comunicazione.”
Una crisi senz’altro forte, se consideriamo che nel 2013 la Rai ha a stento sfiorato il suo target già compresso dal tetto pubblicitario, e che l’anno scorso è stato registrato sia per Rai che per Mediaset un consistente calo di fatturato pubblicitario con punte del -10% per il Servizio Pubblico…
“Vero, ma in questo caso tali risultati economici li considererei un aspetto secondario. Non si tratta, infatti di segnalare una responsabilità industriale della Rai, ma della condivisione di uno stato di crisi del mercato pubblicitario che ha travolto tutti i media. Pertanto, per quanto io ritenga che la Rai non sia stata all’altezza della sfida, la crisi è stata più forte dell’incompetenza. Ma torniamo a parlare di un secondo dato che prima abbiamo tralasciato: la relazione tra il complessivo sistema della Tv e il Servizio Pubblico. Ovviamente negli ultimi decenni la televisione non si esaurisce il ruolo del Servizio Pubblico, anche se è impossibile prescindere da un’area produttiva tanto importante. Ma domandiamoci: perché c’è bisogno di una riforma? Una prima ragione è che, nella percezione dell’opinione pubblica, l’immagine della Rai precipita più dei numero dei suoi ricavi o dei suoi telespettatori. Bisogna ribadirlo: se la crisi dell’audience è rilevante, ancor più grave è la crisi della sua reputazione. Ora, la Rai un suo pubblico ce l’ha. La gente la guarda, ma quanto questo pubblico viene sottoposto a delle indagini, anche un po’ sciatte, sul gradimento, l’utilità, la pertinenza e la rilevanza del Servizio Pubblico, i giudizi sono più feroci della presa di distanza fisica. Il giudizio simbolico sulla televisione marca una distanza maggiore delle reale condotta del telespettatore alle prese con il telecomando …”
Secondo lei, questo accade perché lo spettatore medio si aspetta o vorrebbe ascrivere alla Rai, in virtù dell’illustre passato dei Servizio Pubblico, una diversa condotta, un dovere ed una funzione educativa che gli appare venga disattesa?
“Vi sono almeno due spiegazioni, e una è quanto lei afferma: c’è una tradizione consolidata, un giacimento culturale in forza di cui la Rai ha accompagnato i cambiamenti del Paese, e ne è stata a sua volta specchio. Negli ultimi decenni, ciò non è più avvenuto. Lo ho scritto e ritengo che la Rai sia stata, negli ultimi 10-15 anni, la retrovia del cambiamento. Tutto ciò ha portato a una sconnessione tra l’immaginario delle persone, anche di quelle non colte, che molto si aspettano dal Servizio Pubblico, e l’effettiva offerta che la Rai ha prodotto. Una seconda ragione la si trova nel fatto che, nelle rappresentazioni dei propri comportamenti, i “pubblici” tendono a vergognarsi delle loro pratiche comunicative, ossia tendono a dare di sé un immagine migliorativa dei propri comportamenti culturali. Ora, non possiamo negare come vi sia anche una quota di pubblico che si accontenta anche del peggio della televisione italiana – penso a certi programmi d’informazione triviale, ultracombattuta o, come la chiamiamo noi, “alle curve”, o anche a delle forme di “surreality”. Ma anche questo pubblico, interrogato su come vorrebbe la televisione, la desidera molto diversa da quella che lui stesso consuma ampiamente. Questa seconda ragione è molto importante, perché altrimenti c’è il pericolo che c’illudiamo come “la domanda di nuova televisione marci sulle gambe di un nuovo esercito”.”
Intende un “pubblico diverso”?
“Questo potrebbe sembrare, ma non è così. Il pubblico televisivo italiano è quello che è…”
Non vorrei banalizzare, ma sembra quasi che stiamo parlando di buona “alimentazione”. Il pubblico consuma e s’accontenta del fast food, ma quando interrogato dice di preferire un altro tipo di cucina, magari quella tradizionale e casalinga.
“Per certi versi è così: fast food vs slow food …”
A tal proposito, come Direttore del dipartimento CORIS della Sapienza, lei è certamente in grado di rispondere a queste nostre due sollecitazioni: come avverte siano cambiati i suoi studenti a seguito dell’imporsi nel quotidiano d’una televisione martellante e, nelle ultime generazioni, di un web sempre più connaturato nei loro studi? E come giudica l’evoluzione, o involuzione, a cui lo stesso sistema della comunicazione è andato in contro negli ultimi anni?
“Si tratta di due domande molto diverse, che penso vadano affrontate separatamente. Prendiamo la prima, che trovo molto interessante. Si tratta per me di uno stimolo per un evento che si terrà presto a Milano dove presenteremo al Corriere della Sera le nostre linee guida per la riforma della Rai. Ma torniamo alla domanda: sono cambiati gli studenti con l’avvento della televisione? Certamente sì. In quegli anni ci sembrava che vi fosse una sorta di affinità elettiva tra studenti universitari, soprattutto quelli di Scienze delle comunicazioni, e televisione commerciale. Abbiamo a lungo pensato che nei modelli in campo in cui collocarsi, i giovani puntassero per costituzione verso quello che evoca meno regole e valori, e su questo fronte Mediaset appariva – mi sia permessa la metafora, dietro la quale spero nessuno voglia leggere un giudizio politico – una “casa delle libertà”. Nel complesso, tuttavia, non posso dire che la televisione commerciale abbia davvero condizionato le ultime generazioni. Potrebbe averlo fatto Italia1 con i più giovani, e lo ha fatto potentemente, costruendo anche pubblici discutibili, ma non è arrivata a quelli universitari. Con la rete sta invece succedendo qualcosa di completamente diverso, il che rende la domanda più che pertinente. Il modo in cui gli studenti, anche quelli universitari, si presentano all’offerta formativa è radicalmente cambiato, e questo in virtù della presunzione che lo studente possa ricercare pressappoco gli stessi saperi che l’università distribuisce su un mercato più facile e accessibile, più economico, più fintamente paritario che è, appunto, quello del digitale. Dobbiamo dire con grande energia che la rete è una delle principali insidie per le università, in quanto dà l’impressione di garantire alle persone una sorta di “università popolare di massa”, esentasse e il cui studio non necessita fatica, mentre ciò che offre è quanto di più opposto rispetto alla conoscenza universitaria. Vengono ritenuti parenti stretti, ma non è affatto così. E questo è il primo elemento: gli studenti cambiano, e cambiano perché l’università non ha il coraggio di affermare che devono guardarsi dagli eccessi della comunicazione. Mi spiace dirlo, ma anche i corsi di Comunicazione hanno patito un “eccesso di euforia” verso la comunicazione digitale; abbiamo perso elementi di criticità che stiamo, a fatica, recuperando. Se infatti non è l’università a indicare agli studenti che devono prendere criticamente le misure della televisione così come del web, non lo farà nessun altro. La scuola non lo fa perché ha timore che un attacco alla comunicazione la farebbe percepire come invecchiata. Ma se l’università si permette di essere complice di questo mondo della comunicazione, invece che assumere il ruolo di un fortino critico, perde nel tempo il suo carisma.”
Dopotutto nessuna forma di comunicazione è un puro e asettico strumento, e le modalità di volta in volta utilizzate determinano pesantemente la crescita e le skills su chiunque vi sia esposto….
“Certo. Lo fanno influenzando e rimodellando sia i sistemi cognitivi che le propensioni dell’immaginario. Basterebbero queste due parole per dire che cos’è la mediologia: una corrente che ci fa capire come non va sopravvalutata la forza industriale dei mezzi, ma piuttosto indagate le aree dove essi divengono decisivi.”
In tal senso, trattando di web, ho l’impressione che qui caschi l’asino. Se la Rai infatti mantiene il vertice degli ascolti nel panorama complessivo della televisione, è una realtà quasi completamente assente sulla Rete, superata da numerosi attori della web-editoria, e anche dalla concorrenza Mediaset, il che è una bella contraddizione …
“Bisogna prendere in esame due diverse questioni. Da una parte va considerato il generale stato di salute della Rai, e dall’altra una sorta di complesso d’inferiorità verso la Rete, da cui non riesce a liberarsi. La prima questione è interessante, e noi studiosi della comunicazione dobbiamo segnalare come un elemento culturalmente innovativo il fatto che la Rai ha mantenuto il primato degli ascolti. C’è stata una lunga stagione in cui gli intellettuali italiani, i giornalisti ed una parte dei professori universitari, davano per scontato che lo scettro della vittoria dell’audience sarebbe spettato a Mediaset. Mi spiace contestare questi signori che molto spesso si attaccavano al carro dei dati, strumentalmente manipolati per i loro padroni, ma si è trattato di un falso storico. Mediaset è stata qualche volta vincente quando è risultata innovativa, ma negli ultimi anni l’innovazione non è più collegata alla tv commerciale, bensì alla rete e pertanto mi aspetto che la tv commerciale avrà maggiori difficoltà del Servizio Pubblico di gestire una sua identità commerciale nel futuro. Va quindi riconosciuto che la Rai ha resistito e mantenuto il suo posto al centro della scena. Le tante vittorie del Servizio Pubblico sono state nette, e le spaurite vittorie di Mediaset sono state sempre marginali. Insomma, dobbiamo riconoscere che il pubblico, pur in un Paese individualista e populista come il nostro, sceglie ancora le reti Rai, il che è abbastanza interessante dal punto di vista scientifico.
Quanto alla seconda domanda che riguarda la Rete, la risposta è breve: ce l’ha fatta la Rai a essere Servizio Pubblico anche sulla Rete? No, perché non si è posta neanche il problema. Si è inventata un po’ di direzioni generali, un po’ di nuove strutture, tanti cambi di nome e belle metafore da Rai Way in poi, ma per il resto abbiamo assistito a molti fallimenti e ad una scarsa capacità di creare una tradizione. Tanti gli stimoli, ma nessun progetto organico, tant’è che persino la rete all news, in principio un punto a favore del Servizio Pubblico, oggi versa in condizioni critiche. Nel complesso si può affermare che la Rai soffre di un complesso di inferiorità verso la Rete, e lo soffre a livello generazionale, perché perde i giovani, e a livello di contenuti, perché non si avvede che l’unico modo che ha per essere leader dell’innovazione digitale è quello di affermare i contenuti anche nella programmazione generalista. Non capisce, quindi, che la vertenza non è sullo strumento, il medium, ma sui contenuti, sulla qualità. Da questo punto di vista la Rai è davvero da riformare.”
Ma questa debolezza strutturale della Rai – perché di struttura stiamo parlando –, rispetto al nuovo, non è forse l’altra faccia della medaglia della perdita di una mission educativa?
“In qualche misura sì. Bisogna tuttavia ricordare che la mission educativa deve essere una condotta di vita, un modo di operare degli operatori, dei professionisti e dei dirigenti dell’azienda. Non deve essere solo una questione di palinsesto. Dobbiamo poi ricordare che, se la televisione si presenta in esplicita modalità pedagogica, c’è il rischio che la gente scappi. La televisione non deve confondersi con la scuola, ma piuttosto essere consapevole che può indirizzare verso l’apprendimento, la formazione e la cultura degli italiani, giocando le sue carte sul tavolo della comunicazione, non tanto su quello specifico della formazione. Su questo fronte la battaglia è assai complicata. Noi studiosi della comunicazione troviamo che uno tra i più gravi problemi del Paese non sia la televisione (pubblica e privata) ma la qualità dei suoi operatori, la loro preparazione, le loro capacità professionali, la loro indipendenza e finanche la loro formazione di base.”
Con queste considerazioni lei già risponde alla mia successiva domanda, che voleva portala a trattare di Rai Cultura, che espressamente si occupa di contenuti e format volti alle scuole, all’istruzione e, più in generale, alla cultura del pubblico. Ad oggi quest’area ha un impatto sul pubblico praticamente inesistente, dato che le sue produzioni – peraltro di buona qualità – restano in larghissima parte confinate nei canali tematici di nicchia che non incidono sul mercato degli ascolti (tre reti con uno share complessivo di appena lo 0,50%), e che inoltre non sembrano al centro dell’attenzione dell’azienda nel suo complesso.
“E questo è ciò che molti pensano. Molti ritengono che Rai Educational, che adesso va sotto il nome di Rai Cultura, non sia stata all’altezza di questo processo di cambiamento dell’offerta per l’avanzata di nuove logiche di consumo mediale. La mia impressione è che Rai Cultura di questa situazione non sia la cagione ma la vittima, e che ne soffra. E collocata in una posizione secondaria, e resta quindi difficile pensare che sia nell’autonomia di quella rete o direzione poter cambiare le cose. Detto questo Rai Educational ha firmato progetti molto innovativi negli ultimi anni: il problema è che quei format rischiano di essere il “fiore all’occhiello” di una Rai sostanzialmente molto indebolita a livello di palinsesti.”
La mancanza di un obiettivo e di una strategia condivisa sul tema della qualità fa dunque sì che queste eccellenze non generino alcun effetto di risonanza. L’offerta è troppo frammentata perché i programmi culturali possano risaltare e essere conseguentemente apprezzati. Per certi aspetti, è l’opposto di quello che è accaduto all’interno del Servizio Pubblico inglese. Sono due anni che la BBC individua per ogni stagione televisiva una tematica di carattere culturale o pedagogico a cui far tendere la gran parte dei suoi format. L’anno scorso è stata la memoria della Prima Guerra Mondiale, quest’anno l’insegnamento dei linguaggi di programmazione informatica nelle scuole.
“Non dovrebbero esserci soluzioni di continuità tra i programmi culturali e di qualità della Rai e il resto della programmazione, ma invece sono evidenti e ciò non ha senso. La televisione non deve esser fatta a scatti o dislivelli. Deve strutturarsi come un flusso, una narrazione continua fatta di storie, eventi e appuntamenti. Se si costruiscono degli scalini comunicativi, si viene a formattare pubblici diversi, e ciò priva il Servizio Pubblico della capacità di parlare a tutti i cittadini del Paese. Inoltre, ritengo che al momento in Italia vi sia una scarsa capacità di produzione di format innovativi. Troppe persone agè stanno al loro posto “da secoli”, e senza che, oltre alla morte, ci sia nessun altra autorità che possa rimuoverli. Ora, non sto dicendo che l’innovazione è necessariamente un portato della gioventù, ma vi sono fasi nella vita in cui si tende a ripetere solo ciò con cui si ha già confidenza. È una situazione comune anche all’università: certe slide proposte da alcuni professori sono un tipico esempio della loro pigrizia. Ma questi strumenti, visti in televisione, sono insopportabilmente datati. La televisione è per definizione innovazione. Noi abbiamo intitolato il libro più importante sulla Rai e il Servizio Pubblico prodotto dal nostro dipartimento L’obbligo del nuovo, e in esso affermiamo che la ripetizione uccide la novità, inibisce il cambiamento e, in sintesi, non è più televisione. Da questa prospettiva riconosco come ci sia un problema di aggiornamento dei linguaggi come dei palinsesti, e forse è proprio per questo che nessuno nel nostro Paese riesce più a negare che serva una riforma della Rai.”
Ma proprio nessuno?
“Nessuno. Mi sembra importante rimarcarlo: nel tempo moderno non sempre la parola riforma si associa ad aspettative positive. Ad esempio, trattando d’università, non mi sento di dire che le recenti riforme la abbiamo migliorata. Ma se sulla Rai tutti, nessuno escluso, chiedono e domandano una riforma vorrà dir qualcosa? Noi pensiamo di sì …”
Tuttavia c’è il rischio che, nelle prossime settimane, quando saremo sommersi da titoli e trasmissioni dei talks sulla riforma della Rai, probabilmente quello di cui si parlerà sarà esclusivamente la “governance” ed il controllo politico sull’azienda. Lei è ottimista? Si riuscirà a parlare anche di altro?
“Sono ottimista, anche perché darò il buon esempio in primis, non parlando di governance. Non la considero il problema principale nel necessario processo di riforma e di rivitalizzazione della Rai.”
Il focus de L’Eurispes.it in vista della riforma della Rai
All’interno dei caotici flussi delle notizie e delle “non notizie” che accompagnano le diverse emergenze – reali o presunte – che il Paese attraversa, (rom, immigrazione, disoccupazione, polemiche sulla scuola, ecc.), i temi dell’imminente riforma del Servizio Pubblico rimangono quasi sempre sotto il tappeto e il mondo della comunicazione si dimostra colpevolmente disattento, riluttante ad “esporsi” su di una questione che lo investe direttamente. Unica eccezione lo spazio riservato agli scontri sul tema (molto, troppo, politico) della governance. Nella sostanza manca un dibattito di spessore sulla mission della Rai che riprenda e analizzi i lati oscuri della sua storia, i suoi rilevanti punti di forza e la cornice dei nuovi obbiettivi che dovrebbero indicare nei prossimi decenni la rotta a quella che è stata a lungo la più importante agenzia culturale del Paese, ma che invece da troppo tempo naviga a vista. L’Eurispes.it ha deciso di stimolare questo dibattito, liberandolo dalle miserie e dalle contrapposizioni della politica con la “p” minuscola, dando spazio ad interventi ed interviste di personalità della cultura e di operatori che hanno lasciato tracce importanti nella storia della Rai e della comunicazione, e di altri che potrebbero interpretare adeguatamente la nuova-rinnovata mission (sempre che il sistema sia in grado di elaborarla, di proporla e di assicurarsi che venga perseguita). Nelle prossime settimane L’Eurispes.it proporrà con cadenza ravvicinata diversi materiali di riflessione che arricchiranno un vero e proprio forum aperto ai contributi più vari, ma comunque caratterizzato dalla consapevolezza della centralità del ruolo del servizio pubblico nella comunicazione mainstream, nei canali specializzati e nel web.