Nel processo di ripensamento del capitalismo, abbiamo probabilmente dimenticato il ruolo dei sindacati e dei corpi intermedi. La prassi degli ultimi governi, votati sempre più alla disintermediazione, ha mortificato il confronto, finendo per far evaporare un aspetto vitale per ogni democrazia: il dibattito sui diritti, sulla dignità dei lavoratori, sulla sicurezza e sulle garanzie. Marc Lazar, politologo di fama internazionale, docente alla Science PO di Parigi e Presidente della School of Government della Luiss, nel corso di un evento organizzato in occasione del Consiglio Direttivo SNFIA (il Sindacato Nazionale Funzionari Imprese Assicuratrici, presente da Nord a Sud in 115 imprese, espressione del 90% del settore), che si è tenuto a Bari dal 23 al 25 ottobre, ha affrontato questo tema inquadrandolo nella difficile partita di un’Europa che si prepara al voto, tra paure e incertezze.
Professore, qual è il destino del Sindacato, in una democrazia che sta cambiando equilibri, attori e profili in tutta Europa?
Siamo di fonte a una sfida cruciale per le organizzazioni di interesse, per i sindacati e per i corpi intermedi. Da una parte, stiamo, infatti, assistendo a un ruolo sempre più importante acquisito da nuove tipologie di leadership politiche, che rifuggono dal confronto con le forze sindacali preferendo comunicare direttamente con il popolo; dall’altra, dobbiamo fare i conti con una tendenza ormai diffusa: la società si sta atomizzando, si va verso un rifiuto dell’impegno pubblico, come dimostra il percepibile sentimento di sfiducia nei confronti delle Istituzioni, che non è certo un bene per la salute della democrazia.
È possibile ricostruire il tessuto connettivo di una classe media sfaldata, conferendo nuovo vigore a una cultura della democrazia che vacilla?
Per le organizzazioni di interesse c’è un grosso lavoro da fare, sul piano prima di tutto organizzativo. Bisogna costruire una sorta di menu à la carte, che vuol dire saper strutturare realtà snelle e flessibili, diversificando i servizi e accentuando la capacità di dialogo con gli iscritti. Vanno, inoltre, padroneggiati e conosciuti i linguaggi della comunicazione, altrimenti non si può avere spazio nel dibattito. Esiste poi, e non va sottovalutato, un problema legato alla formazione delle leadership, senza di cui non si può essere all’altezza della sfida. La necessità di fare, quella che definisco “una battaglia culturale” contro alcuni atteggiamenti che tendono a privilegiare la parola “io”, non è più differibile. Senza il recupero del “noi” e del valore della solidarietà, non faremo molta strada.
La Popolocrazia, oggetto di studio del suo ultimo saggio, impone un salto dalla “democrazia diretta” alla “democrazia immediata”, con quali conseguenze?
La democrazia immediata è legata all’enorme peso delle tecnologie moderne come internet, instagram, i social network, ma anche all’idea che, in futuro, bisognerà ridurre al minino il ruolo dei corpi intermedi e dei partiti tradizionali. Ricordiamoci che la “Popolocrazia” si presenta nelle sembianze di una sfida alla democrazia rappresentativa; non sappiamo ancora dove ci porterà, ma attenzione a sottovalutarla. Una cosa è certa: la democrazia liberale deve accettare lo scossone che arriva dal vento populista, non cercando di difendersi passivamente pensando di essere migliore o superiore, quanto, piuttosto, rinnovando idee e meccanismi, a partire dalla ricerca di nuovi canali di partecipazione, che possono dare linfa nuova a un modello vetusto, che da anni, ormai, sta mostrando la corda.
Il versante dell’educazione e della formazione la vede impegnato da molti anni in Italia. Quanto può essere importante ricostruire una classe dirigente consapevole e responsabile?
Direi che è un aspetto essenziale. Bisognerà, al più presto, riformare le classi dirigenti, non solo in Italia, ma anche in Europa, rispettando le specificità dei diversi contesti geografici. Etica della responsabilità, centralità delle competenze, apertura, rispetto del bene comune, dovrebbero essere i tratti comuni di un progetto educativo universalmente condiviso. Chi vuole entrare a far parte delle élites deve avere una vita esemplare, non si possono chiedere ai cittadini rigore e osservanza delle regole se per primi sono gli uomini delle Istituzioni che le ignorano. Privilegi e arroganza non sono più tollerabili. Altro elemento decisivo: l’agenda della politica deve trovare e fare spazio a nuovi ceti, le classi dirigenti del futuro non possono essere la fotocopia di quelli esistenti.
Facile a dirsi…
Penso che non si tratti di utopie, se ci si impegna ad allargare il circuito ad esponenti di diverse estrazioni sociali, anche le più umili. Dare opportunità, agire in modo realmente inclusivo, è questa la strategia che può dare linfa a un paese gerontocratico come l’Italia, che ha bisogno dei giovani come dell’ossigeno. Se, in particolare, prendiamo in esame i dati del declino demografico, ci accorgiamo che al progetto di progressiva diversificazione sociale va aggiunto un sistematico apporto multiculturale e multietnico. Per dirla in termini calcistici: altri “Balotelli” ci vorrebbero, e non solo, anche sul terreno del confronto politico e sociale. Inizialmente sarà uno choc per l’Italia, ma non si può fermare il vento con le mani, il mondo corre avanti.
La nostra è una società tecnologizzata ma fragile, molti intellettuali hanno individuato il rischio dell’accento di una nuova barbarie. Qual è il suo parere in merito?
Il momento che viviamo non è certo semplice. Non bisogna però utilizzare facili stigmatizzazioni. I barbari non penso siano alle porte, quella è storia passata, soprattutto non condivido la supponenza che fa rievocare quello che diceva il grande poeta Bertolt Brecht: «non siete contenti del popolo, sciogliete il popolo». Era ovviamente una boutade, utile a far comprendere che i cittadini vanno ascoltati nelle loro richieste, bisogna capire perché c’è tanta rabbia, non condannare a priori. Vi sono ragioni economiche, sociali, culturali, politiche profonde che generano i comportamenti collettivi, ed è compito di una politica all’altezza interpretare le fenomenologie del cambiamento. Ogni tentazione al ripiegamento va combattuta, chi pensa di farcela da solo, che sia italiano, tedesco, francese o spagnolo, non si rende conto di chi comanda il gioco oggi.
Appunto, chi comanda, secondo Lei?
Vedo un’America sempre più forte e arrogante, la Russia che vuole controllare il mondo, la Cina che ha un forte desiderio di primeggiare; di fronte a questi colossi l’Europa non può essere divisa, se vuole contare. Questi paesi stanno portando con loro una sfida economica, industriale oltre che culturale, che richiede compattezza. I problemi che attanagliano l’umanità, dalla sostenibilità ambientale, all’ecologia, all’emigrazione, non possono trovare risposta nelle strategie di un solo Stato.
Il banco di prova delle prossime elezioni europee, qualche risposta, in tal senso, la darà?
Le elezioni europee saranno decisive, spero che ci sia una grande partecipazione, cosa di fatto non scontata. Per la prima volta il Parlamento europeo è stato eletto nel 1979, 40 anni dopo la stessa Unione viene messa in discussione. Vogliamo più Europa o meno Europa? Vogliamo un Continente ripiegato sui “sovranismi”, impegnato a coltivare al suo interno l’edificazione di nuove trincee e steccati o, piuttosto, un concerto di nazioni libere, autenticamente democratiche, pronte a collaborare, aperte alle sfide del futuro? Il prossimo appuntamento elettorale non sarà tanto una competizione tra Salvini, Di Maio, Orban, Macron, Merkel, sarà un confronto vitale tra valori, progetti e concezioni dell’Europa. Almeno spero che sia così e che, finalmente, prevalgano i contenuti e le idee sugli sterili e inutili personalismi, che, francamente, poco hanno da dire e che, alla lunga, hanno fiaccato l’opinione pubblica mondiale.