Il mio nome è Balbir, volumetto di 135 pagine edito da People, è la storia di un uomo nato nel Punjab e arrivato regolarmente in Italia. La storia di un uomo libero che ha perso la sua libertà in Italia; che in Italia è stato sfruttato, picchiato, minacciato di morte e schiavizzato per sei anni. Le vicissitudini del protagonista sono state raccolte dal sociologo Marco Omizzolo, attivamente impegnato nella liberazione di Balbir e più volte definito dallo stesso come un “fratello”. La storia, raccontata in prima persona, si dipana in un continuo dialogo a due voci, in presa diretta, struttura che conferisce fluidità alla scrittura. Omizzolo, colui che materialmente si è impegnato nella stesura del libro, affianca il protagonista per tutta la durata del suo racconto, diventando un silenzioso interlocutore, pronto ad ascoltare senza obiettare.
La storia di un uomo libero che ha perso la sua libertà in Italia
Nonostante si tratti di una storia di abusi, povertà, umiliazione, Il mio nome è Balbir risulta un testo estremamente scorrevole, che cattura il lettore dall’inizio alla fine, suscitando certamente curiosità ma, soprattutto, un senso di partecipazione che non permettono di mettere via il libro senza aver prima conosciuto la fine della storia. D’altra parte, le intenzioni e lo scopo del protagonista (Balbir) sono chiari fin dalle prime pagine dell’introduzione: «Vorrei che il lettore entrasse nei miei abiti e sentisse sulla sua pelle la violenza del padrone e il mio sforzo di liberazione. Narrando me, io narro questo Paese». L’estrema facilità ed immediatezza del racconto si coniugano perfettamente con questo intento, lasciando un segno profondo nel lettore, il quale, a poco a poco, non solo sodalizza sempre più con il protagonista ma, come il protagonista, vuole vedere ristabilita quella giustizia e quei diritti fondamentali alla base della nostra democrazia. Conclusa la storia e assicurato il criminale alla legge, quel che rimane in chi legge è comunque un senso di contrarietà e delusione. Perché, in fondo, Balbir ci porta, pagina dopo pagina, a prendere coscienza di una terribile constatazione: la sua non è una storia eccezionale. Ce lo raccontano i più recenti fatti di cronaca –almeno quelli di cui abbiamo notizia – come l’omicidio di Satnam Singh, bracciante scaricato dal suo padrone davanti casa con un braccio tagliato in una cassetta della frutta.
Balbir è uno dei tanti “invisibili”, una vittima non soltanto del padrone ma ancora di più delle politiche migratorie
Il protagonista diventa, dunque, un simbolo, uno dei tanti “invisibili”, una vittima non soltanto del padrone ma forse, ancora di più, delle politiche migratorie: «Nell’Ufficio Immigrazione ci viene chiesto di esibire le nostre generalità, le buste paga, i nostri contratti d’affitto e di lavoro, come se la vita amministrativa valesse più della vita attiva […]. Numeri, pratiche e prepotenze. Eppure non siamo nell’azienda di un padrone, ma dentro un’istituzione che rappresenta lo Stato italiano. […] Lo Stato e il padrone non mi considerano un uomo. Per il primo sono un peso amministrativo e forse anche sociale. Per il secondo, invece, sono un uomo da sfruttare fino alla morte. […] Mi chiedete soldi per rinnovare il permesso di soggiorno, ma se non lo rinnovo lo perdo per sempre e mi mandate in galera».
Lo Stato e il padrone non mi considerano un uomo: per il primo sono un peso amministrativo, per il secondo sono un uomo da sfruttare fino alla morte
Questa storia ci consegna una verità: lo schiavismo non dipende solo dal padrone, dal soggetto mafioso che persevera gli abusi; non dipende solo da una persona, quanto, piuttosto, da un sistema costruito su una indifferenza colpevole, quella che ci porta a volgere lo sguardo altrove, ad accettare l’ordine delle cose come siamo abituati a viverle. In questo senso, l’accusa del protagonista è duplice. Da un lato i colpevoli siamo noi, i comuni cittadini che vedono la sua roulotte ad appena 30 metri dal ristorante del padrone e che rimangono in silenzio perché, ancora oggi, si pensa allo schiavo come a qualcuno ridotto in catene, con una palla al piede, mentre non ci si rende conto delle molteplici forme dello sfruttamento e della schiavitù («Ci potete incontrare per strada […] mentre pedaliamo su una biciletta scassata indossando uno zaino enorme per consegnare nelle vostre mani delle gustosissime pizze made in Italy cucinate da molti di noi nelle vostre pizzerie. Cuciamo anche i vostri bellissimi e costosissimi vestiti, quelli dei grandi padroni della moda che voi acquistate indebitandovi per fare bella figura. […] Ci chiamate “invisibili” ma viviamo sotto i vostri occhi, dentro il vostro mondo»). Dall’altro lato è lo Stato, perché per sei lunghi anni, ad appena 60 Km dal Parlamento italiano Balbir è stato violato nei suoi diritti fondamentali, è stato reso schiavo, calpestato nella sua dignità, costretto a lavorare anche 18 ore al giorno per 50/150 euro al mese.
Per sei lunghi anni, ad appena 60 Km dal Parlamento italiano Balbir è stato violato nei suoi diritti fondamentali
Si capisce, allora, il titolo del libro, immediato, essenziale e, allo stesso tempo, simbolo di quello che resta di un individuo al quale è stata portata via ogni cosa e per il quale l’unica via d’uscita è il suicidio. In un passo del racconto il protagonista ci rivela: «Urlavo il mio nome. […] lo ripetevo anche dieci volte. Senza rabbia, odio o disprezzo. Ricordavo a me stesso il mio nome […]. Chi poteva ascoltarmi o rispondermi? Nessuno. Eppure non smettevo». Nel momento in cui non si ha più nulla, neanche la speranza, ciò che rimane è il proprio nome, unico modo per non dimenticare chi si è, per affermare la propria identità ed esistenza a dispetto di qualsiasi sopruso e abuso, unico modo per continuare a respirare e a lottare.
Nonostante la vittoria giudiziaria, per Balbir la riconquista della libertà non significa automaticamente emancipazione
Il finale offre un ulteriore spunto di riflessione: nonostante la vittoria al livello giudiziario e la condanna dell’ex-padrone, la riconquista della libertà non significa automaticamente emancipazione o acquisizione di un nuovo status sociale, dal momento che bisogna continuare a fare i conti con i problemi che affliggono un migrante in Italia. D’altronde, quelle logiche padronali, dello sfruttamento e del razzismo, che forse ormai abbiamo assorbito, più o meno inconsciamente, e che replichiamo automaticamente sono ancora difficili da sconfiggere nel nostro Paese; – il nuovo datore di lavoro di Balbir (ndr): «Mi ha detto che, in quanto straniero, dovevo lavorare e non creare problemi, e che quel padrone aveva avuto sicuramente le sue buone ragioni per trattarmi in quel modo. Mi ha ricordato che loro, i padroni […] devono pagare molte tasse e vengono sfruttati più di noi dalla grande distribuzione. […] Dovevo comprendere l’ex padrone che mi aveva permesso di rubare il cibo dalla porcilaia e di dormire in una roulotte senza acqua, luce e gas e che mi dava 50 euro al mese per lavorare tutti i giorni, anche di notte, che mi picchiava e minacciava di morte». Ma di quanti Balbir o Satnam abbiamo ancora bisogno per non volgere lo sguardo altrove?