Il leader turco lotterà fino alla fine per invertire un declino che sembra inesorabile.
«Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) sarà vittorioso nelle elezioni presidenziali e parlamentari del 2023, come ha fatto in ogni altra elezione degli ultimi 20 anni. (…) È il partito con la più alta capacità di ringiovanire se stesso».
Così il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si è rivolto ai suoi elettori il 13 gennaio 2021, al congresso provinciale del partito per le province centrali di Kirsehir, Kirikkale, Yogat e Sivas. Ha continuato evidenziando come, nonostante le dure circostanze create dalla pandemia, l’AKP abbia aumentato i suoi iscritti di un milione, superando gli undici milioni.
In questo contesto, va inserito anche il piano di riforma interna del partito, presentato durante il congresso, che prevede anche un nuovo direttivo, responsabile della campagna per le prossime elezioni. Erdogan ha prestato particolare attenzione alla creazione di una struttura equilibrata, nella quale ogni segmento dell’elettorato possa trovare un rappresentante del proprio “clan”; sia esso etnico, settario, ideologico, di classe sociale o di membri scontenti del partito. Questa strategia mira a recuperare ogni singolo voto dello zoccolo duro, dal momento che i sondaggi danno il consenso al partito ai minimi storici, in media non superiore al 35%.
La Turchia è una democrazia multipartitica dal 1950 e prevede elezioni generali ogni cinque anni, a sistema elettorale proporzionale, con ottantasette distretti che eleggono i seicento membri della Grande Assemblea Nazionale.
Per diciannove anni, il partito di governo è stato l’Adalet ve Kalkinma Partisi (AKP), Partito della Giustizia e dello Sviluppo, che, nell’agosto 2001, nasce da un gruppo di personaggi provenienti dai partiti conservatori islamici, guidato da Abdullah Gul e dallo stesso Erdogan. Questo si propone come una forza non confessionale, conservatrice e democratica.
A differenza di precedenti esperienze politiche (il partito del Benessere di Erbakan, al quale pure in parte si ispirava), il gruppo decide di non accostare la propria immagine all’identità islamica, ma piuttosto di concentrarsi sul processo di democratizzazione. Il tema del rapporto Stato-religione è sempre stato di grande rilievo in Turchia e l’AKP saprà sfruttare abilmente la questione, mantenendosi ufficialmente aconfessionale, ma contando su una base elettorale musulmana con componenti fortemente tradizionaliste. Va notato che il cosiddetto estremismo islamico non ha mai superato livelli minimi tra i sostenitori di Erdogan, oscillando tra il 3 e il 4%.
Dalla nascita del primo governo Erdogan (2003), l’economia turca è sempre cresciuta e si è dimostrata particolarmente resiliente anche alla crisi globale del 2008-2009. Erdogan ha sempre basato gran parte del proprio consenso sul miglioramento diffuso delle condizioni economiche della popolazione, rendendosi protagonista della più efficace riforma di distribuzione del reddito della storia turca, attraverso l’incentivo fiscale alla creazione di PMI (in un paese in cui cinque famiglie detenevano quasi il 50% del Pil), su un modello non dissimile da quello dell’Italia degli anni Cinquanta. Questa è stata certamente la ricetta che gli ha garantito un consenso così vasto e così imperituro, malgrado la deriva autoritaria post-colpo di Stato mancato, nel luglio del 2016.
Erdogan risulta ad oggi il leader più longevo della Turchia moderna e il più potente dai tempi del suo fondatore, Kemal Ataturk.
Possiamo distinguere i suoi quasi 20 anni al potere in tre fasi: i primi sette anni hanno espresso probabilmente il miglior governo di sempre. Democratico, liberale, riformista, europeista; i numeri ci raccontano di un Paese che nel 2010 rispettava non solo i criteri di Maastricht, ma anche quelli di Copenhagen.
I secondi sei, nei quali il Paese, ferito dal rifiuto europeo ispirato da Sarkozy, ha cercato nuovi orizzonti (le primavere arabe) e nuove alleanze. La permanenza al potere trasformava gradualmente il Governo Erdogan in un club, dove il familismo finiva progressivamente per prevalere sulle competenze.
Infine, gli ultimi cinque anni sono stati contrassegnati dalla deriva autoritaria del Sultano, contro tutto e contro tutti, dentro e fuori il Paese.
Più tempo resterà al potere e più rovinerà il ricordo e gli effetti del buon Governo dei primi anni.
L’opposizione, incarnata principalmente nel Partito Popolare Repubblicano (di origine kemalista), trova la propria occasione di riscatto nel 2019, quando il suo nuovo leader emergente, Ekrem Imamoglu, stravince le elezioni comunali di Istanbul, dopo anni di gestione vecchia e antistorica. Il partito di governo amministrava la città da più di 25 anni e Imamoglu riesce a ottenere consensi anche nei distretti tradizionalmente più conservatori e addirittura nei municipi curdi (prima alleati dell’AKP), senza contare il fatto che la carica di Sindaco di Istanbul è da sempre considerata un trampolino di lancio per concorrere alle presidenziali. Così è stato con Erdogan.
Secondo le proiezioni di Optimar, Istituto di ricerca di Ankara, il partito al governo otterrebbe il 38% (in calo costante) delle preferenze alle elezioni (con i nazionalisti dell’MHP potrebbe sfiorare il 50%), contro il 24% del Partito Popolare Repubblicano (CHP) che però, insieme ad altre forze di opposizione (soprattutto il filo-curdo Partito Democratico), ha costruito un’Alleanza Nazionale che gli ha già consentito di aggiudicarsi Istanbul e Ankara e che, verosimilmente, lo premierà anche alle politiche e presidenziali.
Cercando di riprendere l’iniziativa, Erdogan ha proposto alla Corte Suprema Amministrativa di sciogliere il Partito Democratico (HDP), il secondo partito dell’opposizione, facendo leva sui seguiti della guerra curdo-siriana, che vede ancora la componente curda minacciosa al confine turco.
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Il Presidente si destreggia tra le differenti anime del suo elettorato: ritira il Paese dalla Convenzione Europea sulla violenza contro le donne e, allo stesso tempo, propone nuove regole rispettose dei diritti umani. In realtà, appare difficile che riesca a trattenere l’elettorato più moderato, visto che il patto silenzioso con quest’ultimo era benessere e crescita economica in cambio di consenso.
L’Istituto Statistico Turco, che fornisce i dati sul Pil 2020 regala, infatti, un’immagine impietosa: l’economia turca registra una timida crescita dell’1,8% rispetto all’anno precedente (che già dava segni di rallentamento), la più forte inversione dalla crisi del 2009, per un’economia abituata a tassi medi di crescita del 5,5%.
Tayyip Recep non resterà passivo ad osservare gli eventi, ma cercherà in ogni modo di mantenere la leadership. Per farlo, avrà bisogno di fornire risultati concreti contro la decrescita economica e contro la pandemia, oltre a mantenere stretti legami con i nazionalisti, ormai alleati consolidati, sempre giocando sul filo del rasoio.
Dall’altra parte, Imamoglu pone l’accento sulla crescente insoddisfazione economica, sulle disuguaglianze accentuate dalla crisi sanitaria e sulla deriva antidemocratica del Presidente.
Nelle prime settimane del suo mandato come sindaco di Istanbul, la sua giunta aveva denunciato i giganteschi giri di corruzione e tangenti sugli appalti pubblici della giunta precedente, che avevano enormemente favorito la famiglia di Erdogan: la lotta alla corruzione e alla mancanza di trasparenza saranno i cavalli di battaglia del nuovo concorrente.
L’establishment economico e culturale del Paese ha già voltato le spalle a Erdogan, che deve gestire anche fratture all’interno del suo partito.
La sfida per Imamoglu sarà quella di convincere non solo gli elettori del suo partito, ma principalmente quelli del filo-curdo Partito Democratico. Se riuscirà nel suo intento e se saprà sfruttare il malcontento popolare originato dalla crisi economica e dalle epurazioni di massa seguite al colpo di Stato, la sconfitta di Istanbul potrà essere ricordata come l’inizio della fine dell’epoca di Recep Tayyip Erdogan. E allora l’Europa dovrà tenersi pronta a riattivare il negoziato per l’adesione di Ankara, per evitare di perdere quel Paese per altri 20 anni.
*Min. Plen. Giuseppe Scognamiglio, Presidente Eastwest European Institute