Gli italiani “scoprono” effettivamente la mafia intorno agli anni Sessanta.
Gran parte dei cittadini ne viene a conoscenza dalla letteratura – l’esempio più rappresentativo è Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia (1961) – e dal cinema – Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (1962) e la fortunata trasposizione cinematografica del romanzo di Sciascia (1968).
Le cronache iniziano a parlare di mafia in relazione ai fatti di sangue. La strage di Ciaculli nel 1963 ha particolare risalto perché vede, per la prima volta, come vittime esponenti delle Forze dell’ordine e non altri mafiosi. La prima guerra di mafia porta in primo piano numerosi episodi sanguinosi. In questi anni Cosa nostra viene ancora percepita come un fenomeno locale, esclusivamente siciliano.
Negli anni Settanta arrivano lo sceneggiato televisivo della Rai Joe Petrosino (1972), interpretato da Adolfo Celi e, dagli Stati Uniti, Il padrino – prima il romanzo di Mario Puzo e poi il film – di enorme successo, che offre un’immagine della mafia stereotipata ma di grandissimo impatto anche per gli anni a venire (verranno girati anche due seguiti). La mafia è, per molti versi, una famiglia, che offre protezione e, persino, giustizia a chi ha subìto un sopruso, in cambio di fedeltà e rispetto: la famiglia Corleone si difende dall’avidità degli altri clan ed è spietata con chi la tradisce, ma rappresenta saldissimi legami al proprio interno, per i quali combatte a rischio della vita. Benché venga mostrata la logica della vendetta mafiosa, anche nei confronti dei propri congiunti, si tratta sempre di “punizioni meritate”, di azioni più difensive che offensive. Questi “uomini d’onore”, complici anche la bellezza delle pellicole ed il carisma di grandi attori come Brando, Pacino e De Niro, divengono oggetto di una vera mitizzazione, decisamente troppo romantica rispetto a quel che invece la realtà racconta sempre più spesso.
Nel frattempo la cronaca italiana è sempre più animata da episodi tragici: il Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, viene assassinato nel 1980, il sindacalista e politico Pio La Torre nel 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nello stesso anno, mentre il 1983 è l’anno della strage di via Pipitone Federico. Sono gli anni della seconda sanguinosa guerra di mafia.
Sul piccolo schermo arriva in quegli anni il programma forse più strettamente associato, nell’immaginario di massa, a Cosa nostra: La piovra, che esordisce sulla Rai nel 1984. Destinata a proseguire per dieci stagioni, fino al 2001, la serie ottiene una popolarità straordinaria, non soltanto in Italia ma anche nel mondo. Se la puntata d’esordio è seguita da 8 milioni di italiani, la prima stagione si conclude in crescendo con 15 milioni; il picco arriva nel 1989 con la puntata nella quale viene assassinato il protagonista delle prime stagioni, il commissario Cattani: oltre 16 milioni di telespettatori ed un enorme risalto mediatico. Anche le ultime stagioni, nelle quali al personaggio di Michele Placido succedono Vittorio Mezzogiorno e poi Raul Bova, ottengono ottimi ascolti (medie superiori ai 10 milioni), confermandola una delle fiction di maggior successo di sempre.
Lo sceneggiato a puntate, ricco di colpi di scena, emozioni, violenza, mette in scena una autentica battaglia tra il Bene ed il Male. A differenza del Padrino, i cui protagonisti sono fortemente umanizzati, pur nel contesto mafioso, qui Cosa nostra appare in modo chiaro come il male assoluto, un cancro capace di distruggere tutto quel che tocca. Il commissario Cattani, pur non essendo un uomo perfetto, viene delineato come un inarrestabile oppositore delle cosche, a costo prima dei propri affetti, poi della propria stessa vita. La piovra arriva in tutto il mondo e rivela in modo chiaro la penetrazione mafiosa nelle Istituzioni, al punto da infastidire non pochi (si cercherà persino di fermarne la produzione).
Nel 1986 ci si allontana per la prima volta dalla Sicilia mostrando il volto di altre organizzazioni mafiose attive sul territorio italiano: esce al cinema Il camorrista, per la regia di Giuseppe Tornatore, sulla vita di Raffaele Cutolo.
Contemporaneamente, la mafia è sempre molto presente nei dibattiti di attualità, nella politica e nella cronaca nera. Sono gli anni del pentitismo, dell’introduzione del reato di associazione di stampo mafioso, del pool antimafia e dell’inizio del maxiprocesso, nel 1986.
Tutti gli italiani conoscono ormai la mafia e i suoi metodi, anche se associano il fenomeno soprattutto a Cosa nostra ed alla Sicilia. La percezione della forza e della pericolosità mafiosa si accresce, inevitabilmente, negli anni Novanta, segnati da sanguinosi attentati. Le stragi nelle quali nel 1992 vengono assassinati i giudici simbolo della lotta alla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, determinano un moto di indignazione e dolore senza precedenti nel nostro Paese. La televisione accompagna gli italiani sui luoghi degli attentati, tra le macerie e le sirene, poi ai funerali dei giudici e degli uomini delle loro scorte, tra le testimonianze strazianti delle famiglie distrutte ma anche dei colleghi, dei semplici cittadini che avevano sperato in un cambiamento, infine nei cortei di protesta contro la mafia, che da quel momento torneranno ogni anno nel ricordo di Falcone e Borsellino.
Il clamore è rinnovato dagli attentati del 1993 a Firenze, Milano e Roma – con i quali per la prima volta l’organizzazione criminale tocca direttamente anche il Centro ed il Nord dell’Italia – e da altri omicidi particolarmente abietti: Don Pino Puglisi ucciso nel 1993, Don Peppino Diana nel 1994 per mano della camorra, il giovanissimo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia, nel 1996, e molti altri.
Tutti gli italiani, come mai prima, si sentono direttamente toccati e minacciati dalla brutalità del crimine organizzato e dalla sua sfida aperta allo Stato ed ai cittadini, anche quelli completamente estranei agli ambienti mafiosi.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo Millennio si afferma come tema ricorrente nella produzione audiovisiva lo scontro tra lo Stato, con i suoi rappresentanti più eroici, e le associazioni mafiose. Dopo La Piovra la televisione mette in scena le gesta, ispirate alla realtà, di Ultimo, capitano dei carabinieri a capo della squadra che arrestò Totò Riina, mentre numerose fiction Tv e film per il cinema hanno per protagonisti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Cinema e televisione continuano fino ai nostri giorni a raccontare la mafia e, soprattutto, chi ha sacrificato la vita per combatterla, incontrando l’interesse ed il favore del grande pubblico – lo dimostrano il film I cento passi, sull’omicidio del giornalista Peppino Impastato, le fiction Il generale Dalla Chiesa, L’ultimo padrino, Il cacciatore, il film e la successiva serie La mafia uccide solo d’estate, i film Tv Felicia Impastato e Rocco Chinnici, senza dimenticare i molti mafiosi presenti nelle opere di Andrea Camilleri portate in Tv.
Col mutare dei linguaggi e delle tendenze, d’altra parte, anche il racconto della mafia è profondamente cambiato nel corso degli anni.
Fino allo scorso Millennio la crime story, quella in cui i protagonisti della narrazione sono i criminali, era un genere che nella Tv italiana, affollata di carabinieri e poliziotti, rigorosamente in chiave buonista e celebrativa, aveva trovato raramente spazio. L’Italia era il Paese di fiction come Il maresciallo Rocca, Carabinieri, Linda e il brigadiere, e in parte lo è ancora – soprattutto sui canali generalisti –, come testimoniato dall’amore del pubblico per Il commissario Montalbano ed i carabinieri di Don Matteo. Adesso, però, si sono affermate sempre più le storie nelle quali i protagonisti sono i criminali, anziché coloro che li perseguono.
Se all’estero è sempre esistita una tradizione di gangster e crime story, soprattutto al cinema – si pensi a Quei bravi ragazzi, Donnie Brasco, The departed, The Irishman, solo per citare le storie di mafia, ed alla saga dei Soprano in Tv – per il nostro Paese la tendenza è molto più recente.
Nel 2007 la fiction Mediaset Il capo dei capi, sull’ascesa e la caduta di Totò Riina, vede protagonisti assoluti i più feroci boss di Cosa nostra e racconta passo dopo passo la loro storia fin dall’infanzia, tra scelte ardite e violenta conquista del potere. Il personaggio di Riina, in particolare, risulta carismatico e, come rilevato da una clamorosa ricerca svolta ai tempi in una scuola siciliana, persino “simpatico”: da qui un’aspra polemica, che ha sollevato interrogativi destinati a riproporsi anche in tempi molto più recenti. Nello stesso anno anche la fiction L’ultimo dei Corleonesi ha come protagonista il male, ed in particolare Bernardo Provenzano, riproponendo il rovesciamento di prospettiva nella narrazione della mafia.
Si trattava però di episodi isolati all’interno della produzione nazionale, la cui eco era destinata ad esaurirsi dopo la messa in onda. Fino al 2008, quando Sky e Cattleya producono la serie Tv Romanzo criminale (preceduta dal film per il cinema del 2005), tratta dal romanzo di Giancarlo De Cataldo uscito con successo nel 2002. Si tratta della storia della famigerata Banda della Magliana, formalmente una associazione a delinquere romana, ma con molte caratteristiche in comune con le associazioni mafiose – il controllo del territorio, la collusione col potere politico e con le Istituzioni, l’intesa con Cosa nostra, Camorra e servizi segreti deviati, con legami d’affari, favori reciproci, sostegno “a buon rendere”.
La fiction nostrana – cinema compreso – non aveva mai dimostrato grande voglia né capacità di raccontare i “cattivi” affondando l’obiettivo nell’abisso delle anime nere e comprendendone la complessità. Tranne qualche eccezione, l’Italia sfornava e coccolava antieroi – benché simpatici – non villain di più difficile digestione.
Romanzo criminale, al contrario, è l’appassionante “epopea” di una banda criminale, raccontata dal momento che precede la sua costituzione, nella sua scalata al potere e nella sua graduale dissoluzione. De Cataldo, intuendo le potenzialità narrative delle vicende della banda romana, aveva selezionato e valorizzato alcuni protagonisti principali delle vicende reali, correggendone tratti e biografie per necessità letterarie e facendone figure memorabili. Il telefilm ed i suoi personaggi sono divenuti oggetto, in particolar modo nella Capitale, di una “mitizzazione” decisamente insolita, che ha prodotto persino merchandising – una serie di accendini, alcuni dei quali con nome ed immagine di un personaggio del telefilm: Libano, Freddo, Bufalo, Dandi, Patrizia – evento più che raro, se si escludono le produzioni con target infantile e adolescenziale. Il processo di mitizzazione dei personaggi principali e della banda in generale era in verità iniziato già con il romanzo e di riflesso con il film, tanto che “Romanzo criminale” era diventato un marchio di sicuro appeal e Libanese e Freddo due eroi negativi (o meglio, eroi neri) di grande carisma.
Ad un livello immediato e superficiale il fascino dei protagonisti deriva, nella serie, da uno spudorato carico di coolness regalato loro dalla sceneggiatura. Come balza agli occhi fin dalle primissime scene, il modo di esprimersi dei personaggi, spiccio ed efficace, è improntato al principio “ogni frase una sentenza”: “Piàmose Roma”, “La liquidazione noi la damo in piombo”, “A Roma noi gli ordini nun li piamo, li damo”. Sfrontatezza accattivante, piglio deciso e sprezzo del pericolo completano la cornice esteriore. Andando più a fondo, emerge con evidenza come la carriera criminale rappresenti in questa storia una forma di riscatto sociale e di affermazione personale. Inoltre, vengono presentati personaggi sfaccettati in cui è più facile identificarsi, comunque dotati – almeno i protagonisti destinati a diventare più popolari – di un codice morale (seppur singolare) che comprende la sacralità di alcuni affetti (madre, fidanzata) e, soprattutto, il senso del gruppo, la difesa degli altri componenti della banda, l’amicizia, il coraggio di rischiare in prima persona, la ribellione contro i poteri costituiti. Quasi mai vengono mostrate esplicitamente le vittime innocenti dei delitti della banda. Gli avversari sono generalmente spregevoli, spesso criminali che hanno tentato di ingannarli o di sopraffarli; in molti casi si tratta anzi di vendetta per un sopruso subito. Alla fine, però, quasi tutti tradiranno tutti, con l’eccezione quasi esclusiva dei due grandi protagonisti: il Libanese ed il Freddo.
Gran parte del successo della serie presso il pubblico è dovuto dunque al forte appeal narrativo conferito alle figure principali della storia senza nasconderne lati oscuri ed atrocità, puntando al contrario su contraddizioni e complessità.
In Romanzo criminale la mitizzazione, funzionale alla presa sul pubblico, è quindi di singoli personaggi – figure tragiche con le mani insanguinate –, non dei criminali. Il loro essere criminali ne fa invece degli sconfitti. Non si può chiedere, del resto, a nessuna opera di essere edificante, ma di cogliere la complessità di scelte estreme e devianti, di rendere verosimili esperienze e vissuti senza banalizzarli.
Non si può neppure trascurare il fatto che Romanzo criminale è stata la prima serie televisiva nostrana all’americana, cioè realizzata con il massimo della professionalità sotto ogni aspetto (regia, fotografia, scrittura ed una squadra di attori straordinari), con un doppio sguardo alla qualità ed all’intrattenimento, capace di intercettare i giovani, efficace tanto nell’azione e la suspense quanto nei dialoghi e nell’introspezione psicologica e, persino, nelle parentesi liriche, ruvida quando serve e libera dalle catene dello stile “televisivo”, dall’obbligo del consolatorio e rassicurante, dal politicamente corretto che da noi equivale nei fatti alla deferenza.
La serie si distingue per l’inedita problematicità del materiale presentato, per la capacità di dividere, di muovere l’emotività in modo complesso, scompaginando le distinzioni precostituite tra bene e male. Soprattutto attraverso una umanizzazione dei devianti mai schematica o didascalica, che stimola fascinazione ed orrore, mai estraneità.
Per questo insieme di fattori il successo di Romanzo criminale apre una fase nuova per la rappresentazione mediatica delle organizzazioni criminali nel nostro Paese e per la risposta del pubblico.