In Europa la prostituzione nigeriana ha assunto connotazioni drammatiche e spesso sottovalutate anche dal decisore pubblico, che pare derubricare il fenomeno a fatto marginale o, sostanzialmente, di solo ordine pubblico. In realtà, la tratta internazionale a scopo di sfruttamento sessuale, con riferimento soprattutto a quella nigeriana, è un fenomeno di massa che lega e attraversa molte città europee.
Molte giovani donne nigeriane, spesso minorenni, originarie soprattutto della regione di Edo e, in particolare, della città di Benin City e aree limitrofe, arrivano in Europa perché strappate alle loro famiglie attraverso l’azione coercitiva e violenta di rituali, diventati il codice identificativo della mafia nigeriana. Una mafia complessa e violenta che sta destando l’interesse di sociologi e importanti centri di ricerca, anche in ragione del suo crescente radicamento nel Paese. Proprio a fine gennaio 2019, ad esempio, sono stati arrestati i componenti di un intero clan che aveva, stando all’accusa, stabilito la sua base operativa nel Cas (Centro di Accoglienza Straordinaria) di Mineo, a Catania. Su delega della Procura distrettuale antimafia di Catania, la polizia ha fermato 19 persone indiziate, a vario titolo, dei reati di associazione per delinquere di tipo mafioso, denominata Vikings o Supreme Vikings Confraternity, una banda armata dedita allo spaccio di droga, marijuana e cocaina, alle rapine, alle estorsioni e alle violenze sessuali nei confronti di loro connazionali.
Le ragazze nigeriane, vittime di tratta internazionale a scopo di sfruttamento sessuale sono indotte a partire, innanzitutto, dalle strategiche rassicurazioni di donne connazionali ed anzi, a volte, del loro stesso clan familiare o amicale. Queste “amiche di famiglia” invitano le malcapitate a partire per il “Vecchio Continente” con la scusa di continuare gli studi, per ottenere un lavoro dignitoso o per sposare un nigeriano già stabilmente inserito nel contesto lavorativo e sociale europeo. Sono donne che vengono chiamate “sponsors” ma sono spesso ex prostitute divenute mezzane e incaricate dai vertici dell’organizzazione mafiosa nigeriana di reclutare nuove ragazze per il business criminale della prostituzione.
In Italia, circa l’80% delle prostitute sono di origine nigeriana, a cui seguono ragazze provenienti da alcuni paesi dell’Est e di vari altri paesi africani e asiatici. Le vittime appartengono spesso a contesti familiari poveri o impoveriti da continue crisi ambientali, umanitarie o economiche. Si tratta di donne che spesso devono occuparsi della famiglia e che per questo sviluppano una responsabilità amplificata che le espone alla tentazione del viaggio come ricerca di un’occasione di vita migliore in Europa per sé e la loro famiglia.
In altri casi sono, invece, madri nubili e per questo emarginate dalla loro comunità perché considerate non degne di appartenenza sociale e di solidarietà. Alcune altre, invece, sognano semplicemente un futuro migliore in Europa oppure di fuggire dagli orrori di violenze che possono essere quotidiane, dalla povertà e dai pericoli di attentati. Queste ragazze percorrono le strade dell’emigrazione già battute da molte loro connazionali e dai profughi originari di vari paesi. Già durante questo viaggio, vengono obbligate a prostituirsi, a volte per pagare alcune tratte dello stesso viaggio. In altri casi, invece, tali obblighi derivano dalla necessità di abituarle a subire le violenze alle quali sono destinate appena arrivate in Europa. Un viaggio costoso che inizia con un debito contratto sin dal principio con le loro “zie” quale ipoteca che le vincolerà per il resto della loro vita o quasi. Quel debito può arrivare a toccare i 70mila euro: 50mila circa per il viaggio e alcuni extra per i servizi connessi, a partire dal cibo, abiti, alloggio, aborti con metodi pericolosissimi per la loro salute.
Il dominio esercitato su di loro è fondato su meccanismi ricattatori raffinati a partire da un rito praticato davanti a testimoni. Tutto inizia poco prima del viaggio. Alla cerimonia partecipano, oltre alla ragazza, la sua famiglia, i vicini, la madam che si occuperà di lei appena giunta in Europa e, infine, un rappresentante delle credenze tradizionali oppure l’officiante di un tempio, spesso associato al culto di Ayelala, antenato mitico divinizzato, la cui autorità non solo è riconosciuta socialmente ma agisce attivamente nello svolgimento del rito. Quest’ultimo prevede un protocollo assai articolato a partire dal confezionamento di un piccolo oggetto chiamato juju, a cui segue il prelievo dalla ragazza di ciocche di capelli, peli, unghie e, a volte, anche sangue mestruale. Il juju, nella tradizione locale, era utilizzato come assicurazione sulla vita o portafortuna mentre ora rappresenta l’impegno assunto dalla giovane con la maman e, dunque, espressione del legame, ormai formalizzato, con la sua nuova “figlia”. Quest’ultima viene spogliata, lavata e avvolta in un lenzuolo bianco a rappresentare un nuovo inizio. In alcuni casi sono praticate scarnificazioni, peraltro abituali nella medicina tradizionale del paese (esattamente come i salassi praticati in Occidente dalla medicina fino alla fine del diciannovesimo secolo), a simboleggiare l’ingresso nel corpo dello spirito che accompagnerà la giovane donna nella sua nuova vita e per il resto dei suoi giorni. Infine, il contratto (di schiavitù) viene celebrato con la declarazione degli impegni che in modo sintetico possono essere riassunti in: lavorare, non parlare dell’accordo, obbedire e pagare. Le conseguenze che possono discendere dalla rottura del contratto e, dunque, del relativo vincolo vanno assai oltre l’intimidazione. Il responsabile del juju, infatti, si incaricherà di rendere giustizia alla maman offesa, scagliando sulla ragazza “ribelle” o sui suoi familiari, una maledizione della follia, della sterilità, dell’incidente, della malattia o della morte.
È evidente che il rapporto tra consenso e coercizione è molto intenso. Alcune ragazze si sottopongono per induzione volontaria al rito, sebbene dietro una pressione familiare e sociale rilevante. Altre invece lo rifiutano, mentre altre ancora pagheranno il loro debito pur senza credere del tutto agli effetti prodotti dal vincolo e dai malefici eventuali. Esso, è utile ricordarlo, trae il proprio potere di convincimento da una serie di norme interiorizzate, nelle quali prevalgono la deferenza verso gli antenati, il rispetto della parola data e la cultura del sacrificio. La pratica della coercizione alla prostituzione e, dunque, la radice della tratta, trova espressione in questa cultura che, a partire dal rispetto, conduce verso forme di dipendenza assoluta (sono legittime le assonanze con le radici simboliche e retoriche di alcuni riti di affiliazione mafiosa in Italia). Si tratta di una affiliazione rituale che manifesta la sua drammatica dipendenza, con buona pace di diffuse tesi popolari che sembrano diffondersi come fake nel dibattito politico italiano, quando le ragazze nigeriane si ritrovano costrette a prostituirsi lungo le strade italiane o europee, dipendenti economicamente per ogni cosa dalla maman, private dei loro documenti, spesso maltrattate e picchiate selvaggiamente, ripetutamente violentate dagli uomini del clan e obbligate ad abortire.
A volte, solo quando giunte in Europa, le giovani donne nigeriane vittime di tratta si rendono conto dell’inferno nel quale sono precipitate, all’interno del quale gioca un ruolo anche il “cliente” delle stesse, soggetto co-protagonista dello sfruttamento. L’angoscia legata alle rappresaglie che la rottura del giuramento potrebbe scatenare non è semplicemente irrazionale ma legata ad un forte sentimento di depressione derivante dalle pessime condizioni di lavoro, residenza e subordinazione alla maman e al suo entourage maschile. È dentro questa dinamica che si manifestano, col tempo, la sofferenza psicologica e fisica, malattie e disturbi psico-somatici, insonnie, ansia e paure manifeste. Si tratta di condizionamenti e reazioni che continuano anche dopo che la ragazza nigeriana è stata presa in carico da organizzazioni e associazioni ad essa dedicate, tanto che non è rara la tentazione, da parte sua, di tornare nella rete della tratta e della prostituzione forzata per evitare le conseguenze date dalla contestazione del rito e dei suoi vincoli. Molte ragazze, infatti, si vedono non tanto come vittime ma come traditrici, colpevoli di non aver saputo tenere fede alla parola data e soddisfatto le aspettative del suo clan sociale e familiare. Decostruire il rito, sottrargli il potere di coercizione, equivale a fargli perdere la sacralità che esso ha assunto, e smontare il suo potere di vincolo.
Gli interventi delle Forze dell’ordine e delle varie Procure che agiscono sul fenomeno, sono di fondamentale importanza. Dovrebbe però avviarsi nel Paese una nuova fase di indagine e approfondimento, sollecitata dal mondo del Terzo Settore e della ricerca accademica e non solo, allo scopo di approfondire un tema che definisce la condizione di schiavitù di migliaia di donne residenti in Italia e il business economico ad essa legato, con la sedimentazione di pratiche e prassi caratterizzanti l’agire della mafia straniera. L’analisi potrebbe smontare diffusi stereotipi e pregiudizi, spesso diffusi strumentalmente dal dibattito politico, e che altro non fanno se non contribuire a condannare donne e bambini a condizioni di grave sfruttamento, povertà ed emarginazione.