Pubblichiamo di seguito l’intervista con il Prof. Salvatore Natoli, già docente di Filosofia Teoretica all’Università Milano Bicocca, che interviene sul tema dell’istruzione nel contesto del Secondo Rapporto su Scuola e Università dell’Eurispes, uscito nel 2024.
Prof. Natoli, per quale ragione la “dissennata” politica dei tagli sembra avere sempre come maggiore bersaglio proprio la scuola da cui dipende il nostro futuro?
Il problema della scuola è stato sempre affrontato secondo una gerarchia di emergenze. Fatalmente questo ha portato, come spesso avviene nelle società in crisi, a una riduzione degli investimenti nel sapere e nella conoscenza. Si tratta di una grave sottovalutazione dell’importanza della cultura e dell’istruzione. Non pensare agli effetti sul lungo periodo di certe scelte vuol dire, infatti, non saper guardare al futuro del Paese. Alle nostre classi dirigenti sembra interessare solo il tempo breve. Una disattenzione che stiamo pagando con un generale abbassamento del livello culturale della Nazione. La scelta stessa dei ministri dell’Istruzione, risponde a logiche casuali, ad equilibri di partito. Grande accuratezza nella individuazione dei responsabili dei Dicasteri economici da un lato, pura consultazione del manuale Cencelli, quando si tratta di decidere chi guiderà la Scuola e l’Università. Così non si può certo andare lontano.
Rivolgendo lo sguardo alle passate riforme dell’istruzione, è stata l’autonomia a lasciare la traccia più forte nel percorso evolutivo della scuola italiana?
L’unica vera riforma è stata quella varata dal centro-sinistra che ha sancito la scuola media dell’obbligo. In quel momento si affermava un diritto, sancito nella Costituzione: l’accesso universale alla cultura. È stato realizzato un grande piano di eguaglianza, ma è mancata una visione complessiva per il seguito: si è proceduto per aggiustamenti, con una estenuazione ‒ anzi direi un impoverimento ‒ della riforma Gentile che, a suo modo, corrispondeva ad un disegno progressivamente svuotato senza che venissero adottati criteri davvero proporzionati ai nuovi assetti sociali. Ad esempio, l’accesso a tutte le facoltà universitarie, qualunque sia stato il ciclo delle secondarie, ha spesso generato una mancanza di orientamento nelle scelte spesso non motivate o comunque per provarci. Né, poi, i numeri chiusi hanno risolto il problema, ma hanno anzi aumentato l’aleatorietà. Tra l’altro sono state trascurate le scuole professionali, rilevanti, per esempio, in paesi come la Germania.
Intende dire che la cura è spesso stata peggiore del male?
È stata peggiore del male perché è andata avanti con interventi di tipo semplicemente adattativo senza risolvere i problemi strutturali. Ciò ha tra l’altro generato nuove diseguaglianze perché ad alcuni soggetti, potremmo dire più “fortunati”, era concesso di godere di processi di formazione extracurricolari non disponibili per la più ampia fetta di cittadini.
A proposito di interventi rapsodici, uno dei punti cruciali del dibattito sul sistema dell’istruzione nel nostro Paese è quello relativo alla formazione dei docenti scolastici e universitari. Per quale ragione non si riesce a mettere in campo un modello di sistema che non basi la qualità dell’offerta formativa unicamente sulla capacità e la buona volontà del singolo docente?
Quanto detto prima, spiega anche questo delicatissimo aspetto, contenuto nella domanda. Gli insegnanti, soprattutto negli anni del boom, mi riferisco all’arco di tempo che va dagli anni Sessanta agli Ottanta del secolo scorso, sono stati assunti spesso “ope legis”, senza concorsi. Sul piano della formazione non è certo un modello che può dare garanzie. Abbiamo guardato più a questioni sindacali, che alle esigenze reali e allo sviluppo delle competenze. La scuola di massa ha fatto spesso da ammortizzatore sociale: ha garantito occupazione, ma non sempre con pari attenzione alla qualità. Basti considerare la discontinuità nella docenza, fatta di graduatorie e di supplenze. Ancora una volta, adattamenti dettati dalle urgenze, senza un disegno strategico.
Ammetterà che, al di là delle logiche di equilibrio politico, abbiamo avuto anche ministri di riconosciuta alta competenza che hanno guidato l’istruzione, Berlinguer, De Mauro solo per citarne alcuni. Eppure, il salto in avanti non è avvenuto, in termini di innalzamento della qualità dell’offerta scolastica complessiva. Per quale ragione?
Figure importanti quelle che citava, è però mancata la continuità. Alcuni Governi hanno compreso quanto fosse “calda” la materia dell’istruzione, ma non hanno sviluppato un progetto organico di scuola. Ho insegnano per tutta la vita, facendo esperienza di docenza anche alle medie inferiori, un periodo cruciale perché sono gli anni della maturazione emotiva e cognitiva degli allievi. Molte difficoltà vengono proprio dalla scarsa attenzione ai processi di crescita che si compiono a quella età. Ad esempio, si pensi allo scotto pagato dai ragazzi nei due anni di stop imposti dalla pandemia: hanno subìto non solo una rottura della continuità didattica, ma anche una frattura nella vita di relazione, nel rapporto con gli altri. Recuperare e risanare i guasti provocati da una crisi tanto grave quanto inaspettata, non sarà cosa facile, ma potrebbe essere un’occasione per affrontare con lucidità la questione scolastica presa nel suo complesso, senza interventi spot o, ancor peggio, tentando di cavarsela con la semplice aggiunta della parola “merito”.
Si parla spesso della necessità di ridurre il divario Nord-Sud anche nel campo della formazione. Non ci riferiamo solo a una profonda differenza geografica, ma di qualcosa di più complesso e articolato, che riguarda il centro e la periferia, i quartieri, i contesti urbani ed extraurbani, la sfera pubblica e la sfera privato, persino i modelli di vita adottati. Cosa si può e si deve fare per “ricucire” un Paese troppo frammentato come il nostro?
Anche la scuola ha le sue responsabilità nei limiti strutturali che ho cercato di tratteggiare. Il divario Nord-Sud è un tema dalle complesse implicazioni sociali. Bisogna pensare che, oltre alla disomogeneità economica, esistono spesso condizioni familiari difficili, ragazzi che non hanno punti di riferimento educativo, soli, abbandonati: si pensi alla difficile realtà di tante periferie. Il quadro è denso di contraddizioni. Esiste un ceto medio colto che avvia i figli a scuola per mantenere una certa condizione sociale e, se possibile, per accrescerla, ma che si scontra ugualmente con limiti organizzativi e strutturali insiti nella PA e nel corpo sociale soprattutto del Mezzogiorno. Si tratta purtroppo di vecchi retaggi storici, di un’Italia a due velocità. La parte produttiva ha dimenticato le regioni più lente e lontane dallo sviluppo. L’emigrazione di tanti cervelli non è un fenomeno nuovo, anche se oggi appare aggravato dall’esportazione all’estero dei migliori talenti. Se non corriamo ai ripari sarà difficile invertire una rotta che ci condurrà al declino.
A complicare il quadro i fattori demografici, in un Paese sempre più vecchio. Qual è la sua opinione in merito?
Siamo dentro un flusso demografico di cambiamento senza precedenti, ma in Italia, a fronte della riduzione dei numeri, non è corrisposto un maggiore investimento. Così mentre la popolazione scolastica si va riducendo, anziché personalizzare l’insegnamento, si sono accorpate le classi. Gli immigrati, sono in costante aumento, ma non riescono a compensare il “deserto” demografico, e tuttavia anziché allargare l’accoglienza e formarli si alzano barriere. Ma la componente multietnica crescente imporrà delle scelte: il problema delle migrazioni non si risolve con gli spot elettorali, è endemico, strutturale. Nella storia abbiamo avuto grandi ondate di migrazioni – si pensi agli inizi del Novecento; oggi i flussi da governare sono diventati continui e questo costituisce una differenza sostanziale rispetto al passato.
Quali sono le conseguenze?
Si dovranno riformulare i modelli formativi: i docenti dovranno sviluppare una sensibilità specifica di comprensione dell’intercultura. Sono convinto che nel tempo si modificheranno metodi e impostazioni, ma dovremmo andare oltre lo spontaneismo, per ridurre sprechi e dispersioni. Non possiamo più permettercelo specie in regime di risorse scarse.
La scuola primaria e quella secondaria di primo grado sono adeguate per strutture e qualità formativa a fornire basi solide nelle diverse discipline per preparare gli alunni a compiere il “salto” alle scuole superiori? Le superiori, a loro volta, preparano gli allievi per l’Università?
Quello che emerge, sia nelle scuole medie che nei licei, è una formazione frammentaria. Si sono sgretolati, come accennavo all’inizio della conversazione, i canoni. Venute meno le strutture di apprendimento, si è ridotta la capacità di attenzione. L’insegnamento viene assumendo un carattere rapsodico, emotivo. In tal modo la preparazione si fa volatile, svanisce. Oggi si fanno tante cose, si sperimenta: ciò amplia la curiosità, ma non in pari misura la competenza. Insisto: il continuo cambio di insegnanti ‒ cosa che si ripete ogni anno puntualmente con cattedre che rimangono vuote o temporaneamente assegnate ‒ genera una instabilità che ha dei riflessi sullo studio, sulla motivazione e sul rendimento degli allievi. Oggi pare sia venuto meno il canone fondamentale dell’insegnamento: leggere, scrivere, far di conto. Gli indicatori ufficiali, di cui tanto si parla nel dibattito giornalistico, collocano i nostri studenti agli ultimi posti, evidenziando un linguaggio impoverito e l’incapacità di risolvere problemi anche molto elementari. In passato abbiamo condannato l’eccessivo nozionismo, adesso siamo caduti nell’eccesso opposto. Si consulta Google, soddisfacendo un’esigenza estemporanea d’informazione: ad esempio, si cercano in Rete notizie su Catilina ‒ o altro ancora ‒ ma non lo si colloca nel contesto d’epoca e soprattutto, appiattiti come si è nel presente, è venuto meno il senso. Per singolare paradosso si è tanto criticato il nozionismo, oggi la Rete occasiona una conoscenza al bisogno, di fatto un ipernozionismo.
A proposito di Google e dell’uso dei motori di ricerca in classe. Transizione digitale e didattica, a che punto siamo?
Su questo c’è una grande arretratezza: nella scuola non si insegna a usare appieno gli strumenti digitali che costituiscono la nuova alfabetizzazione. I ragazzi sono ormai abituati a usare telefonini, tablet e anche i meno abbienti, ma nella media non sono parimenti adusi ad apprendere con le macchine. I ragazzi, come si dice, smanettano fin da piccoli, ma è necessario che questa abilità sia accompagnata da processi di formazione: giusto “navigare” ma attuando un percorso analitico che strutturi il pensiero e non favorisca la semplice divagazione. I pc danno, ormai, accesso alla informazione, facilitano perfino la compilazione di tesine e tesi di laure, ma non del pari la capacità di argomentare. Ci vuole dell’altro: i docenti devono sapere educare alla pratica argomentativa, a sostenere tesi e a giustificarle. A quest’esito non basta la pura accumulazione di dati.
Nella società della conoscenza non si può trascurare l’Università, eppure i dati parlano di riduzione delle iscrizioni, abbandoni, “fuga” verso l’estero. Come si può risolvere questa contraddizione?
Una delle ragioni ‒ e molto grave ‒ che determina l’abbandono dei corsi è data dalla discrasia che sussiste tra i percorsi formativi e la domanda che proviene dal mercato. In passato si studiava avendo la consapevolezza che il lavoro era lì, pronto ad attenderci o che comunque lo si sarebbe trovato. Per questo si cercava di completare al più presto l’iter universitario. C’era una continuità tra la formazione e la professione; in taluni casi si proseguiva nell’attività di famiglia, il che spingeva spesso i figli a scegliere la stessa professione dei genitori. La scuola di massa ha cambiato le carte in tavola: si sceglie la facoltà per passione o, molto più pragmaticamente, quella che può favorire un più facile sbocco lavorativo anche se oggi meno probabile. Il contesto è, infatti, più difficile e si procede ad aggiustamenti in corso: ci si ricicla in mestieri per cui non si è studiato. Andando al concreto, ci si accorge che la laurea serve ancora, ma non è più una méta. Si cercano dunque sbocchi all’estero e li cercano, soprattutto, i più dotati e di maggior talento, con un evidente impoverimento del patrimonio culturale della Nazione. Una cosa, infatti, è favorire lo scambio, altro cedere risorse che non tornano. Nei grandi numeri, poi, il riciclo si realizza al ribasso e purtroppo porta i nostri ragazzi a svolgere lavori non adeguati rispetto alle competenze acquisite.
Adattarsi non è sempre un male, perché presuppone disponibilità e capacità di impegnarsi da parte dei giovani, non crede?
Esiste un tratto antropologico proprio degli italiani e che, in un certo senso, ne costituisce il DNA storico: la capacità adattativa. Non dico l’arrangiarsi, ma d’accomodamento certo si tratta. Va detto che l’Italia è stata tenuta in piedi da questa “arte” antica e molto praticata. Non dico che non vi siano capacità d’iniziativa, non manca certo la creatività ma è lo standard medio del sistema che ha un grado di efficienza modesto e comunque non al passo con altri Stati europei. Non entro nel merito delle ragioni che hanno prodotto questo, ma quel che evidente è che l’Italia è segnata da atavici dualismi, da doppie velocità; si pensi che a quasi due secoli dall’Unità si parla ancora di “questione meridionale”. Ne consegue, ad esempio, che a fronte di un sistema scolastico non pienamente efficiente, chi è capace, per emergere deve fare un maggior sforzo rispetto a chi parte da standard medi più elevati. Questo determina tanti abbandoni. Direi che il sistema Italia appare “interstiziale”: caratterizzato da punti di eccellenza ‒ che ci invidiano – e sacche di ritardo. Ciò spiega perché a fronte di limiti oggettivi, alcuni sono capaci di sviluppare capacità adattive, altri semplicemente si arrangiano, non è certo la stessa cosa. Gli abbandoni scolastici non sono affatto consolanti e sarebbe superficiale imputare la responsabilità solo a chi lascia la scuola.
Si capisce, da quello che lei dice, come la catena delle implicazioni che pesano sulle politiche formative e sui loro effetti sia ampia e complessa. L’ingresso in questo orizzonte dei privati e delle Università telematiche come va interpretato?
Tra pubblico e privato, non deve esserci opposizione ma composizione a condizione che l’istruzione pubblica mantenga alti i suoi livelli di qualità. In caso contrario si avallerebbe una diseguaglianza. Non bisogna trascurare che anche il privato produce bene pubblico; l’importante è che non sia finanziato a svantaggio degli interessi collettivi. Per quanto attiene all’Università italiana ‒ e non solo ‒ è stata sempre contraddistinta dalle grandi scuole: Gottinga, via Panisperna, si sono formate, di fatto, più per cooptazione che per concorso. Questo paradigma potrebbe pur sempre funzionare a patto che vi sia qualcuno che si assume la responsabilità pubblica di selezionare veramente i migliori. Ciò detto, le grandi scuole sono oggi sempre più rare e, ammesso che vi siano, resta sempre aperto il rischio che facciano da copertura a “velati” nepotismi. Ad ogni modo, il vero limite dell’Università italiana è dato dal fatto che essa è a “groviera”: ci sono tanti punti di eccellenza sparsi sul territorio, ma in modo non sistematico, interstiziale. Ora, proprio, a fronte delle molte eccellenze, in Italia bisognerebbe mettere a regime il sistema nel suo complesso. Cosa che non riusciamo a fare a dovere. A proposito d’adattamento vien, poi, da dire che nei fatti siamo davvero una società trasformista ma non nel senso dell’usuale filibustering parlamentare, perché di fatto le nostre capacità d’adattarci prevalgono su quelle non tanto di concepire, ma di sostenere grandi progetti, se non per realtà limitate. Per non andare lontano, basta por mente alle difficoltà e ai ritardi nell’attuazione del PNRR. E l’Istruzione c’entrerebbe non poco. Mi pare che insistere ancora nel dire “piccolo è bello” valga sempre meno.